Tutti noi siamo legati a un progetto esistenziale, le nostre attività e i nostri comportamenti sono in parte diretti a garantirci la conservazione.
Costruiamo creando valore: la maggior parte delle nostre azioni ha un risvolto economico, lavoriamo non solo per conservarci, ma anche per accrescere il nostro patrimonio personale, familiare, aziendale.
Questa attività di miglioramento non deve andare persa: i figli devono dare continuità a ciò che i genitori si sono sforzati di creare ed accrescere.
L’individuo può in cuor suo sentirsi sereno e soddisfatto quando si rende conto che ciò che ha accumulato in termini di valori, conoscenza e patrimonio materiale avrà continuità nelle generazioni che gli succederanno.
Tale progetto dovrebbe avere un ruolo centrale in ogni persona.
Come ogni strategia, tutto ciò richiede consapevolezza, determinazione, coraggio, visione, pianificazione e organizzazione, sia in fase di costruzione di questo patrimonio che in fase di trasmissione.
Il consulente è quella figura professionale in grado di agevolare il cliente, grazie alla sua spiccata capacità predittiva, nel percorso di crescita del patrimonio e conservazione tra generazioni.
Spesso, a causa di comportamenti sbagliati,le persone tendono a rinviare quel momento in cui si devono valutare le modalità di trasferimento delle proprie attività , perchè convinte che si tratti di una questione da affrontare dopo. Invece le scelte di oggi possono condizionare quello che potrà essere in futuro il patrimonio che si lascia agli eredi legittimi e/o testamentari.
Assolutamente sbagliato lasciare che sia il caso, o peggio l’inerzia, a governare il momento del passaggio.
Si è sempre portati a rinviare la ricerca della soluzione perchè si crede che non ci sia, mentre l’esperto la conosce bene ed è in grado di dare soluzioni a problemi che spesso le persone non hanno il coraggio di affrontare.
Il lavoro del consulente ha quindi un’importante funzione sociale.
La legge di stabilità 2019 ha introdotto alcune novità che riguardano il mondo dei PIR con il lodevole obiettivo di veicolare più danaro alle piccole imprese e alle non quotate.
Oltre ad aumentare le possibilità di investimento per le Casse di Previdenza dei liberi professionisti e per i Fondi Pensione, dal 5 al 10% dell’attivo patrimoniale, la manovra 2019 ha introdotto ulteriori novità: da una parte, si chiede di investire almeno il 3,5% del patrimonio complessivo del Piano, in quote o azioni di fondi di Venture Capital; dall’altra almeno il 3,5% del patrimonio totale del PIR in strumenti finanziari emessi da aziende di piccole e medie dimensioni, che hanno meno di 250 dipendenti, con ricavi inferiori a 50 milioni e che sono ammesse alle negoziazioni sull’ AIM Italia .
I nuovi vincoli si applicano ai PIR costituiti a partire dal 1° gennaio 2019, ma in assenza del decreto attuativo che è in via di emanazione, al momento non è possibile sottoscriverne di nuovi.
Ma facciamo due conti.
Se consideriamo i quasi 20 mld di € raccolti dai Piani Individuali, dal varo della legge ad oggi, il 3,5% è pari a € 700.000.000,00: nel mercato AIM delle piccole PMI non c’è un flottante di queste dimensioni!
Insomma, anche volendo, il mercato non può adeguarsi perchè non c’e’ abbastanza da comprare!!
Un altro 3,5% deve essere investito in Fondi di Venture Capital,residenti in Italia o in Stati UE o SEE e che investono prevalentemente in Pmi non quotate. In Italia fondi di Venture Capital aventi tali caratteristiche ce ne sono davvero pochi, per cui un importo pari al 3,5% (€ 700.000.000,00) allo stato attuale è impossibile da investire.
Quali sono le soluzioni? Banche, reti di promotori e società di gestione del risparmio attendono risposte dal Governo.
Nel frattempo si è creata una situazione di stand-by che certamente non fa bene al settore.
Cosa aspettarci nel 2019? Proviamo a fare qualche previsione.
Cominciamo dalla fine del QE: nel 2018 si è ridotto fino a diventare zero, nel 2019 verrà mantenuta stabile la quantità di denaro immessa nel sistema, ma non ne verrà stampato altro. Sicuramente la BCE reinvestirà i titoli in scadenza, in estate alzerà i tassi di interesse e arriveranno a scadenza i TLTRO (finanziamenti a tassi agevolati). Si può prevedere quindi un rallentamento nell’erogazione del credito alle imprese .
E non solo…
Nel 2019 continueremo ad assistere al mancato completamento dell’unione bancaria nell’eurozona che in questi anni ha compromesso l’efficacia della politica monetaria della Banca Centrale. La Germania si è sempre opposta a questa unione non fidandosi delle economie del Mediterraneo, prime fra tutte l’Italia, a causa del debito pubblico e della dipendenza delle banche dal debito stesso. E tutto questo ha causato anche il mancato allineamento della garanzie sui depositi bancari che ha bloccato l’integrazione del mondo del credito in Europa. Infatti non si fanno fusioni bancarie transfrontaliere da decenni!
Per non parlare delle asimmetrie politiche che rendono l’Europa una realtà disomogenea.
Dall’altra parte dell’Oceano c’è la Fed che ha deciso di proseguire nella politica di aumento dei tassi di interesse, ma non ha ancora chiarito quante volte lo farà. Chi sta facendo resistenza è Trump.
Perchè?
Perchè nel 2017 e nel 2018 è cresciuto enormemente il debito pubblico americano, nonchè il deficit.
Solo nel 2018 sono stati emessi 1400 mld di dollari di titoli di Stato. Un aumento dei tassi di interesse determinerebbe un ulteriore appesantimento del debito americano e un contestuale aumento del deficit .
Questo Trump non lo vuole. Powell invece sì. Chi vincerà questo “duello”?
Le Asset class globali nel 2018 hanno chiuso l’anno in rosso: i titoli azionari a livello mondiale hanno perso mediamente il 9% , le obbligazioni hanno perso mediamente il 3% , il petrolio è calato del 20%, l’oro ha perso 1% da inizio anno. A pesare sui listini sicuramente la prospettiva di un’economia reale in rallentamento che in parte è provocata dalle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. Lo scontro è incentrato sui dazi che ha un impatto diretto sulla supply chain, ma questa guerra commerciale rappresenta anche il confronto tra due giganti mondiali e su chi fra loro due dominerà il mondo nei prossimi decenni.
Non dimentichiamo poi l’impatto sull’economia mondiale della Brexit, su cui è impossibile fare previsioni.
Altro grosso elemento di incertezza è il ruolo che in passato hanno avuto nell’economia globale le banche centrali ( che per anni hanno sostenuto i mercati tagliando i tassi oltre 700 volte) che hanno iniettato nel sistema finanziario oltre 12.000 miliardi di dollari, provocando in passato una sopravvalutazione del valore delle azioni e delle obbligazioni a livello mondiale. Il caso americano è eclatante: i tassi sono stati portati a zero per molti anni, la liquidità era abbondante, le imprese si indebitavano sul mercato a tassi vantaggiosi e spesso usavano la liquidità ottenuta per comprare azioni proprie in borsa e farne lievitare le quotazioni sul mercato, drogandolo.
Ora il comparto obbligazionario, visti i grossi rallentamenti sul mercato della liquidità da parte delle banche centrali, manifesta incertezza.
Per quello azionario vale lo stesso. Il 2019 sarà un anno di rallentamento dell’economia globale, ma non siamo ancora in presenza di una recessione, per due motivi: le valutazioni dei titoli azionari nel mercato statunitense sono scese non per mancanza di crescita, ma per il calo delle stime di incremento degli utili stessi. Sarà importante capire se questo calo, generato dalla riduzione dello stimolo monetario e dalle grosse incertezze sugli equilibri mondiali, sarà sufficiente e garantirà in ogni caso un periodo di stabilità.
Mai come ora c’è tanta incertezza sul futuro dei mercati mondiali. Vale la pena quindi, per salvaguardare il risparmio da imprevedibili evoluzioni dell’economia globale, confrontarsi con un professionista in grado di guidare nelle giuste scelte di investimento. Un bravo consulente finanziario raggiunge questo obiettivo attuando un’oculata diversificazione senza mai perdere di vista le esigenze del cliente.
Ma quanto vale il debito pubblico italiano?
Ben 2331 miliardi di € e solo quest’anno è cresciuto di ben 68,2 mld di €.
Una somma monstre, che appare ancora più imponente se esaminiamo il dato pro-capite: ben € 42.106 è il debito in capo a ciascuno di noi.
Come è stato possibile arrivare a un valore così alto? Dobbiamo andare indietro di oltre vent’anni, quando l’uso di denaro pubblico è servito a creare consenso e pace sociale.
Ma non si è tenuto conto nè dei cicli economici nè degli effetti del costo che il debito stesso avrebbe prodotto nel tempo.
E se poi rapportiamo questo debito al Prodotto Interno Lordo viene fuori un dato ancor meno incoraggiante.
Se consideriamo normale un rapporto debito pubblico/PIL all’ 80%, il nostro arriva al 130,8%, e le proiezioni per i prossimi mesi non sono affatto tranquillizzanti.
Non dimentichiamo che il 74% del debito pubblico è emesso a tasso fisso per cui il costo all’emissione viene sostenuto per tutta la durata del titolo. Allo stato attuale lo Stato paga 64 mld di € di interessi per il debito pubblico. Si tratta purtroppo di una spesa improduttiva che viene distolta da altri tipi di spese quali gli investimenti in infrastrutture, nell’economia, ecc, e se consideriamo le singole manovre di bilancio che tanto fanno discutere e di cui si parla spesso in TV, sui giornali e… al bar, il confronto con il costo del debito spaventa e non poco. E un debito così elevato costringe lo Stato ad emettere altri titoli del debito pubblico per finanziare gli interessi da pagare sul debito stesso
E il PIL?
Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’ISTAT si rileva che l’Italia non cresce più. Il PIL di quest’anno nel III trimestre è calato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e se guardiamo i dati dei Paesi dell’Unione europea, risultiamo il fanalino di coda per quanto riguarda la crescita.
Per questo si ritiene da più parti che sarà davvero difficile riuscire a rispettare le stime di crescita previste per il 2019 pari all’ 1,5%. Le ragioni sono da ricercare sia nel rallentamento del ciclo economico globale che nella situazione internazionale legata ai timori di sanzioni commerciali. Gli Stati europei più esposti ai rischi di dazi commerciali sono infatti Germania e Italia, paesi con il maggiori surplus della bilancia commerciale
Una frenata che coinvolge anche altre economie avanzate: appena sopra di noi troviamo la Germania che nell’ultimo anno è cresciuta solo dell’1,2%, la Francia e la Gran Bretagna 1,5% mentre la Spagna corre con il suo 2,5%.
Una crescita che diventa sempre più disomogenea e il divario aumenta se usciamo dai confini europei.
A trainare infatti la crescita globale ci sono India, Cina e Stati Uniti. Un mondo in accelerazione che rischia di lasciarci indietro.
Il risparmiatore, di fronte a un mercato che si muove in modo dinamico ma non sempre prevedibile, ha bisogno di una guida che indichi la strada migliore per salvaguardare il proprio denaro e dargli valore aggiunto, sfruttando tutti i momenti, anche quelli apparentemente negativi. Perchè è proprio da quelli che si può tratte maggiore ricchezza.
Un buon consulente finanziario lo sa.
Forse non tutti sanno che i dipendenti pubblici che acquisiscono il diritto ad andare in pensione non ricevono il Trattamento di Fine Servizio in tempi rapidi.
Addirittura in certi casi si può arrivare anche ad attendere 3 anni!!!
A chi spetta il TFS?
L’Inps ha emanato la circolare n. 73 del 5/6/2014 che spiega il funzionamento e le modalità.
Vediamo in dettaglio.
Il comma 484 dell’articolo 1 della legge di stabilità 2014, stabilisce che i dipendenti che hanno terminato il servizio e hanno maturato i requisiti pensionistici a partire dal 1° gennaio 2014 ottengono il pagamento del Trattamento di Fine Servizio come segue
In caso di cessazione del rapporto di lavoro per inabilità o per decesso, il trattamento di fine servizio viene liquidato entro 105 giorni dalla cessazione.
Alcune istituzioni finanziarie o banche danno la possibilità di richiedere il pagamento anticipato del Trattamento di Fine Servizio (TFS) : basta rivolgersi a un consulente e si ottengono tutte le informazioni necessarie.
Il dazio in campo economico è una barriera artificiale ai flussi di beni e/o fattori tra due o più paesi, barriera che nasce da esigenze di politica economica di un singolo Stato (o gruppo di Stati) e si manifesta in manipolazioni amministrative dei flussi di beni in entrata e in uscita dallo stato stesso. Le entrate monetarie date dai dazi costituiscono per lo Stato un introito fiscale. Dal punto di vista politico, il dazio costituisce uno strumento di protezione di alcuni settori economici nazionali, quando questi non possono competere con la concorrenza estera. L’uso sistematico di questo strumento si chiama protezionismo. (Wikipedia)
Il dazio è applicato ai beni importati da quegli Stati con cui non sono stati stipulati accordi preferenziali e serve per avvantaggiare la produzione nazionale rispetto a quella estera.
Dovunque si legge che Trump è un protezionista. Ma lo è davvero? Guardando il grafico sembrerebbe di no.
In rosso sono rappresentati i dazi applicati dall’America sui prodotti esportati in quei paesi e in celeste quelli pagati dall’America quando importa da quegli stessi paesi.
La Thailandia sorprende, come l’India e l’Argentina. E non solo…
Da qui la conclusione che quando si parla di protezionismo bisogna osservare il fenomeno su scala globale e solo così si può capire come stanno veramente le cose.
Cosa sta facendo Trump? Sta cercando di proteggere la produzione interna e sta usando tutte le armi possibili.
Per esempio ha disdetto il NAFTA e con il Canada e Messico ha istituito l’accordo denominato USMCA (che il Congresso deve ratificare).
Sta cercando di trovare un accordo con la Cina, ma ha di fronte un avversario economicamente molto potente. Dazi del 10 per cento su circa 200 miliardi di importazioni cinesi in vigore dal 24 settembre, che saliranno fino al 25 per cento dal primo gennaio 2019. E Pechino risponde con dazi del 5-10 per cento su circa 60 miliardi di import dagli Usa.
In linea di principio può diventare una ritorsione dopo l’altra, un conflitto a 360 gradi.
Nell’era della globalizzazione, è il commercio a trainare l’economia, sviluppandosi sistematicamente più velocemente della produzione.
Ma qui si rischia di creare una vera e propria guerra commerciale, che non gioverebbe a nessuno.
Paradossalmente i danni maggiori di questa guerra potrebbero arrivare in un momento successivo, quando si torna a un periodo di pace commerciale.
Perchè se vincono gli accordi bilaterali, come sta facendo Trump, si rischia di creare il caos a livello internazionale. E nessuno vuole questo!
In macroeconomia il prodotto interno lordo (PIL) misura il valore di mercato aggregato di tutte le merci finite e di tutti i servizi prodotti nei confini di una nazione in un dato periodo di tempo e che sono valorizzabili in un processo di scambio. Sono quindi esclusi i beni e servizi prodotti dalle imprese, dai lavoratori e da altri operatori nazionali all’estero, mentre sono considerati i prodotti realizzati da operatori esteri all’interno del Paese.” (Wikipedia)
Attualmente i dieci più importanti paesi del mondo, in base al loro PIL sono, nell’ordine: Stati Uniti , Cina , Giappone , Germania, Regno Unito , Francia , India , Italia , Brasile e Canada. Il Prodotto Interno Lordo non è certamente l’unico misuratore in grado di rappresentare l’economia di un paese ma indubbiamente le dimensioni economiche degli Stati rappresentano l’importanza del singolo rispetto al tutto. La valorizzazione del PIL va affiancata a un altro parametro importante e significativo ed è il PPP -Purchasing Power Parity”(Parità di potere d’acquisto). Considerando anche questo dato capiamo ad esempio che la Cina, pur avendo un PIL inferiore agli Stati Uniti, l’ha già superata in valori assoluti. Secondo il PIL nominale gli Usa sono ancora avanti ma la Cina sta crescendo più velocemente.
E il video che segue lo dimostra perfettamente.
Le continue oscillazioni dei mercati azionari e obbligazionari hanno come fondamenta la ricchezza che il mondo produce e la sua inarrestabile crescita. Per questo non ha senso temere le oscillazioni nel breve termine, avendo paura che di colpo tutto si azzeri.
Vorrebbe dire temere che all’improvviso il mondo si fermi. Ma questo è impossibile!!!
Ecco perchè ciascun risparmiatore dovrebbe avere al suo fianco un bravo consulente finanziario che si faccia carico di infondere ottimismo e buon senso, capacità fondamentali per una sana e razionale pianificazione finanziaria che ha nel risparmio gestito il suo strumento migliore.
I risparmiatori guardano con paura al mercato finanziario ed è a fronte di queste incertezze che proliferano quegli atteggiamenti populisti che imperversano nel mercato internazionale.
La cultura del breve periodo che domina sui mercati e media alimenta la paura e scoraggia l’investimento intelligente.
“Il 2017 è stato un anno straordinario per i mercati azionari, con le quotazioni ai massimi storici in numerosi settori; al tempo stesso sono tuttavia aumentati a dismisura anche il senso di frustrazione e l’apprensione per il futuro. Paradossalmente, ai rendimenti elevati corrisponde un forte stato d’ansia. Sin dalla crisi finanziaria, chi ha i capitali ha maturato enormi vantaggi, mentre i più si trovano ad affrontare una combinazione di tassi bassi, ridotta crescita salariale e sistemi previdenziali inadeguati. Molti non hanno la disponibilità finanziaria, le risorse o gli strumenti per un risparmio efficace, e spesso chi investe ha in portafoglio troppa liquidità. Per milioni di persone, la prospettiva di una pensione sicura appare sempre più evanescente, in particolare per i lavoratori meno qualificati che hanno maggiori probabilità di perdere il lavoro. Proprio questi temi, ne sono convinto, alimentano il diffuso clima di apprensione e polarizzazione che si respira ormai ovunque”.
A scriverlo nella lettera annuale agli azionisti è Larry Fink CEO di BlackRock una delle più grandi società di investimento nel mondo che può contare su una struttura di oltre 14 mila professionisti e ha in gestione più di 6 mila miliardi di dollari.
Ciò che scrive Fink è davvero importante: bisogna guardare al medio-lungo termine quando si fanno gli investimenti senza dimenticare che le nuove tecnologie continueranno a far crescere l’economia e quindi anche i mercati finanziari .
Siamo alla fine di un ciclo : ci saranno delle correzioni e poi tutto ripartirà. Bisogna evitare di rincorrere i mercati perchè una delle cose che le analisi mostrano già da molti anni è che i risparmiatori sono pro-ciclici , cioè vendono quando le cose vanno male e comprano quando le cose vanno bene.
Per uscire da questo mood di instabilità e dare maggior qualità alle prospettive future è necessario cominciare a superare un problema che ormai non riguarda più solo il nostro Paese: l’eccesso di liquidità che appesantisce i portafogli senza portare valore.
Ma in che modo?
E’ necessario i che i risparmiatori si trasformino in investitori più consapevoli.
A 10 anni dal fallimento di Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari al mondo, una cosa è chiara: il 2008 ha segnato la fine di un’era e delle certezze che c’erano state fino ad allora.
A quei tempi l’onda lunga arrivò fino al nostro paese minacciando quello che fino ad allora veniva considerato dagli Italiani il santuario del risparmio: la banca.
Se ai venti di tempesta della crisi finanziaria statunitense il sistema bancario italiano tradizionalmente poco speculativo è riuscito a resistere per un po’, a metterlo in difficoltà è stata la crisi di fiducia che tra il 2010 e il 2012 ha fatto temere al mercato che l’Italia non sarebbe stata capace di rimborsare il suo debito pubblico.
Prima la stretta creditizia con un impatto pesante su un’economia banco centrica come la nostra, poi le politiche di austerity dentro e fuori il nostro paese.
E ancora, gli scandali del mondo bancario che hanno reso il terreno sempre più accidentato: dal salvataggio tardivo di Banche Etruria, Carichieti, Banca Marche e Cariferrara alle banche venete appesantite da irregolarità gestionali, dal MPS salvata dopo vari tentativi di risanamento a banca Carige in crisi già da molto tempo per i troppi NPL in pancia.
Se a tutto questo aggiungiamo il crollo dei tassi di interesse in quest’ultimo periodo, che ha praticamente cancellato i margini per gli istituti di credito, e lo sviluppo tecnologico che sta imponendo un nuovo modello di business, arriviamo alla conclusione che il mondo bancario sta attraversando una fase che impone un cambio di passo.
E i segni di questo cambio già si vedono abbondantemente.
In 10 anni gli sportelli attivi in Italia si sono ridotti di 6800 unità, il numero dei bancari è diminuto di 44.000 persone mentre i POS in circolazione sono aumentati di oltre un milione
La direzione è tracciata spinta dall’avvento della tecnologia.
Anche in Italia il fenomeno comincia a manifestarsi, ma con i suoi tempi e con le sue caratteristiche peculiari dovute sia alla tipologia di consumatore “anziano” rispetto ad altri mercati, che a una limitata diffusione della banda larga nel nostro paese, e che vede nell’attualità il suo limite a causa di una situazione interna piuttosto incerta.
Un’incertezza che trova la sua origine da variabili endogene che esogene.
Se guardiamo al passato molte banche sono saltate per colpa di una cattiva governance e una mala gestio. Da questo punto di vista l’attuale sistema bancario italiano si è in parte ristrutturato attraverso numerose ricapitalizzazioni nonché alleggerendosi dell’enorme peso dei crediti deteriorati grazie a un processo di cessione che ha visto anche l’intervento pubblico.
Le nuove posizioni di NPL nei bilanci bancari sono quantitativamente inferiori rispetto al passato.
Ma oltre alle variabili endogene sui bilanci delle banche impattano anche le variabili esogene perché negli attivi bancari sono presenti i Titoli di Stato.
L’instabilità politica provoca un aumento dello spread e questo incide sui prezzi dei titoli di Stato che a loro volta impattano sui bilanci delle banche: la capitalizzazione bancaria negli ultimi 5 mesi si è ridotta di 1/3 con una perdita per gli azionisti di 35 Mld di euro.
Questo fenomeno, sommato alla volatilità dei mercati, preoccupa la Banca Centrale Europea che giudica insufficienti gli sforzi delle banche italiane di mettersi al riparo da ulteriori perdite di bilancio.
A novembre ci saranno gli stress test da parte della BCE dopodiché verranno pubblicate le trimestrali bancarie nelle quali certamente saranno visibili gli effetti di questa instabilità.
Un rischio all’orizzonte c’è ed è rappresentato sia da un probabile restringimento del credito dovuto all’indebolimento dei bilanci delle banche (impossibilitate a chiedere ulteriori ricapitalizzazioni al sistema), nonché a un rallentamento della crescita.
Per fronteggiare questi rischi e favorire il finanziamento alle imprese uno degli strumenti più adeguati è il mercato, attraverso la raccolta fatta con i Piani Individuali di Risparmio. Questo rappresenterà il più forte e decisivo cambio di passo del sistema finanziario italiano.
Cos’è RITA?
E’ uno strumento introdotto con la Legge Finanziaria 2017 insieme all’APE agevolato e all’APE volontario per contribuire alla flessibilità in uscita a seguito dell’introduzione della Legge Fornero e senza gravare sulle casse dello Stato.
Una rendita integrativa temporanea anticipata (RITA) attraverso la quale i soggetti cessati dal lavoro e in possesso dei requisiti per l’accesso all’APE e che devono essere certificati dall’INPS, possono riscuotere in via anticipata le prestazioni della previdenza integrativa fino al conseguimento dei requisiti pensionistici del regime obbligatorio.
Si tratta di un “reddito ponte”, erogato dal Fondo di previdenza complementare cui il lavoratore è iscritto e nel quale ha contribuito e che può essere abbinato all’APE volontaria o all’APE sociale. Va valutato bene se richiederla oppure no perchè se si riscuote in anticipo il capitale accumulato nel fondo integrativo si riduce e di conseguenza si abbatte il valore della rendita che il lavoratore percepirà una volta raggiunti i requisiti per richiedere la pensione di vecchiaia
I requisiti per ottenere la RITA sono diversi
oppure
Richiedere la RITA comporta anche un interessante vantaggio fiscale in quanto la rendita è soggetta a tassazione con l’aliquota del 15% che si riduce dello 0,3% per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione al Fondo sino ad abbassare l’aliquota sostitutiva al 9%.